Il 18 maggio 2023 alle ore 18:00 il PMI CIC ospiterà un Webinar dal titolo “Place branding tra project management e metodi partecipativi: il caso di Stifone e le Gole del Nera” in cui insieme ai due relatori, Filippo Andrea Rossi e Denis Dal Soler, rifletteremo sul delicato rapporto che intercorre fra project management e community engagement nell’ambito delle iniziative pubbliche. In attesa del webinar, i due relatori ci spiegano in questo articolo qual è l’aspetto di cui dobbiamo tenere conto quando vogliamo ingaggiare una comunità su quelli che sono gli obiettivi di un progetto.
La Redazione
Si può assimilare la creazione di un place brand ad un progetto? E come può il project manager mettere la sua metodologia al servizio di questo particolare tipo di processo? Al fine di rispondere a queste domande occorre trovare prima una modellizzazione sufficientemente descrittiva dell’attività di place branding. L’impresa, d’altra parte, non è scontata come si può credere: gli stessi addetti ai lavori faticano infatti ad accordarsi su di una definizione condivisa. Com’è noto, tale difficoltà deriva dal fatto che il place brand è il risultato di per se stesso ibrido di un concetto che, nato in un ambito prettamente commerciale, viene traslato a partire dagli anni Novanta su realtà estremamente più complesse, come possono essere città, regioni e paesi interi. Da questa situazione di incertezza teorica deriva ad esempio il ricorrente invito a prediligere approcci più flessibili quando si parla di project management applicato allo sviluppo di destinazioni e località. Il formatore specialistico Placemaking Education ha distinto di recente [1] tra un approccio cosiddetto “convenzionale” ed uno “iterativo” o “agile”, paragonando il primo a un treno che procede inesorabilmente su binari precostituiti e il secondo ad una barca aperta alla volatilità dei venti e pertanto maggiormente in grado di adattarsi agli imprevisti.

Altri studiosi hanno proposto invece un modello tripartito sulla base del quale saggiare empiricamente come vari gruppi target reagiscano a strategie di governance pubblica che puntino su iniziative di brandizzazione. Stevens, Klijn e Warsen [2] definiscono in particolare tre modalità simultanee e concorrenti in cui può essere intesa una qualunque operazione di place branding in corso, distinguendo tra:
- – “Branding as a Selling Mechanism” ovvero l’approccio top-down e dirigistico che punta a massimizzare la promozione della località tramite decisioni verticali di posizionamento e comunicazione
- – “Branding as a Value Enhancer” ovvero l’approccio che predilige gli stakeholder cosiddetti interni (come ad esempio residenti e comunità locali) e punta a creare un vantaggio competitivo per loro
- – “Branding as a Community Builder” ovvero l’approccio partecipativo bottom-up che ha come obiettivo rafforzare la rete sociale di una determinata area.

Un’altra proposta è avanzata infine da González e Gale i quali, dopo aver condotto una rassegna estensiva di cosa si intenda tradizionalmente per “valore” nella letteratura specialistica, si concentrano sulla distinzione tra i mezzi e i fini del place branding. Assegnando poi alla prima voce due fattori (verticale / partecipativo) e altrettanti alla seconda (crescita / ottimizzazione del valore di scambio), giungono così a una matrice 2×2 dove vengono raccolte le quattro tipologie possibili di valore generato.

Tutti questi modelli consentono al praticante di project management di avere un’idea più precisa delle peculiari caratteristiche di questo settore. Ciononostante, seppure elegantemente impostati, essi non consentono ancora di rispondere alle domande dalle quali abbiamo preso le mosse all’inizio del presente articolo. Va da sé infatti che in ciascuno dei tre casi considerati il project manager dovrebbe intervenire in tutti gli ambiti e in tutti i ruoli: egli o ella si troverebbe quindi nella difficoltosa condizione di agire allo stesso tempo come conduttore del treno e come timoniere della barca (stando al primo modello proposto); come implementatore top-down delle decisioni verticali ma anche come garante dell’adozione bottom-up da parte della comunità (stando al secondo); e così via. Uscita dalla porta, la domanda rientra dunque dalla finestra. In che senso è possibile per il project manager applicare il suo metodo ad un’attività per sua natura co-creata e non delimitabile come il place branding?
Consideriamo a questo punto un’ultima modellizzazione proposta da Staci M. Zavattaro già qualche anno fa [4]. L’idea della professoressa della University of Central Florida è quella di applicare al place branding la teoria drammaturgica del sociologo canadese Erving Goffman e in particolare i concetti di “ribalta” [front stage] e “retroscena” [back stage]. Tali concetti, proposti per la prima volta da Goffman nella sua opera seminale La vita quotidiana come rappresentazione, sono fondati sulla metafora del teatro, a partire dalla quale l’autore interpreta qualsivoglia tipo di interazione umana: per il sociologo infatti ogni situazione sociale è assimilabile a una performance drammaturgica, dove si può distinguere una ribalta nella quale un attore o una equipe di attori va in scena e un dietro le quinte nascosto alla vista altrui dove la rappresentazione viene opportunamente preparata. Un dottore ad esempio dovrà mobilitare tutta una serie di dispositivi espressivi, ivi compresi apparati simbolici (il camice, l’arredo dello studio) e gestualità, per conferire dignità alla sua diagnosi; nulla vieterà poi che, lontano dagli occhi del paziente, ripassi un qualche manuale o consulti il parere di un amico. Allo stesso modo un arbitro calcistico dovrà adottare una certa qual dose di sicumera quando deciderà per una espulsione controversa, rimandando le titubanze al privato dello spogliatoio: l’incertezza infatti lo priverebbe della necessaria autorevolezza in campo. Il punto in ogni caso è che l’attore in questione sappia mantenere il controllo delle impressioni che suscita negli altri [impression management], posto che come scrive Goffman:
“Quando l’individuo si trova alla presenza diretta degli altri, la sua attività ha il carattere di una promessa. Gli osservatori si accorgeranno di dover accettare l’individuo sulla fiducia, facendogli credito, mentre è in loro presenza, per qualcosa il cui vero valore sarà accertabile soltanto dopo che egli se ne sarà andato” [5]
Zavattaro interviene a questo punto sottolineando che questo è anche il caso delle operazioni di place branding, dove un team di persone all’interno di una qualche organizzazione ha spesso il compito convogliare pubblicamente un’immagine strategica verso determinati segmenti di audience mentre allo stesso tempo è impegnato, nel retroscena, a capire quali immagini gli altri si stanno costruendo di rimando. Detto in altre parole, “the organizational identity process is about shared definitions of the organization and the responses to those shared or unshared social constructions” [6].
Se teniamo presente questa innovativa teoria – troppo spesso tralasciata dalla letteratura di settore – risulta forse chiaro dove e come si debba collocare l’attività del praticante di project management a supporto dell’iniziativa. Qui propriamente il project manager non si occupa soltanto di classificare gli stakeholders e di monitorare lo scadenziario dei deliverables. Quando si tratta di place branding, il project management è piuttosto un lavoro di impression management.
È compito quindi del project manager definire di volta in volta che cosa debba essere ribalta e cosa retroscena – e proprio in questa meticolosa attività di incorniciamento [framing] si espleta il suo metodo. Non cura la ribalta del place brand in se stessa (non è infatti un PR o un marketer), né si limita a dirigere il lavoro del back office; bensì mantiene la leadership espressiva sulla rappresentazione in corso e proietta costantemente la definizione della situazione più opportuna alla riuscita del progetto. Si consideri uno stakeholder potenziale supporter che è allo stesso tempo un residente e si ponga il caso che egli avanzi una determinata richiesta ai vertici decisionali dell’iniziativa di place branding: secondo l’impostazione qui proposta, spetta al project manager valutare la pertinenza della richiesta in questione, ovverosia giudicare quale identità stia effettivamente performando l’attore-stakeholder mentre la avanza (parla da investitore o da residente?) e di conseguenza se essa debba essere risolta come fatto del retroscena o piuttosto come fatto della ribalta, visibile a tutti. La proposta che qui abbiamo presentato ha bisogno senza dubbio di ulteriori approfondimenti e doverose espansioni che qui non abbiamo lo spazio per dare. Tuttavia, anche a questo stadio della sua formulazione, consente perlomeno ai praticanti di project manager di pensare lateralmente e cavarsi di impaccio di fronte ad alcune difficoltà che tradizionalmente affrontano quando si dedicano a progetti di place branding. Capita spesso infatti che la classificazione dei portatori di interesse si impigli nella distinzione tra stakeholder esterni e interni. Ciò avviene perché molto di frequente si dà il caso che nei progetti di sviluppo locale un investitore privato o anche un funzionario pubblico siano allo stesso tempo anche un residente. Occorre pertanto che il project manager adotti una prospettiva dinamica e, mettendosi a cavallo tra ribalta e retroscena, sappia osservare il gioco “difficile e traditore” in cui tutti gli attori sono impegnati mentre tentano di mettere in scena una qualche forma di identità. Solo così il project manager saprà sprigionarsi dal ruolo di esattore di task chiuso nel suo ciclo di progetto e saprà evolvere verso una figura più adeguata al compito che, simile al poeta di Pasternak, «vede al tempo stesso / e da un punto solo / ciò che è visibile a due / isolatamente».
Bibliografia
[1] Da LinkedIn. https://www.linkedin.com/posts/placemaking-education_control-placemaking-impacts-activity-7037167465755267072-5sf0/ [Visitato l’ultima volta il 25/04/2023]
[2] V. Stevens, E. H. Klijn, R. Warsen (2021), Branding as a Public Governance Strategy: A Q Methodological Analysis of How Companies React to Place Branding Strategies, «Public Administration Review», Vol. 81, N. 4, pp. 752-762
[3] L. R. González & F. Gale, Theorizing “Value” in Sustainable Urban Branding Strategies, in S. M. Zavattaro (a cura di), Public Branding and Marketing, Springer, 2021, pp. 21-45
[4] S. M. Zavattaro (2013), Expanding Goffman’s Theater Metaphor to an Identity-Based View of Place Branding, «Administrative Theory & Praxis», Vol. 35, N. 4, pp. 510 – 528
[5] E. Goffman, The Presentation of Self in Everyday Life, Doubleday, 1959; trad. it. La vita quotidiana come rappresentazione [1969], Il Mulino, 1997, p. 13
[6] S. M. Zavattaro (2013), op. cit., p. 519.